Gli interessi legali
Occorre prima di tutto sapere cosa sono gli interessi: la definizione base la troviamo nel codice civile, all’articolo 1282. Gli interessi sono il “frutto” dei crediti di denaro, che quando sono liquidi (cioè chiaramente determinati nel loro ammontare) ed esigibili (cioè sono dovuti in virtù di una obbligazione già scaduta) producono di diritto degli interessi. Non occorre quindi, in linea di massima, compiere un’attività specifica per far scattare il conteggio degli interessi.
Un dato rilevante, soprattutto per il debitore, è l’ammontare di questi interessi, dunque il tasso applicato al loro calcolo. A questo proposito, ricorre spesso il termine “interessi legali“, ma di cosa si tratta effettivamente? Non si tratta di interessi stabiliti per legge (gli interessi sono sempre dovuti, alle condizioni sopra dette), con questo termine il riferimento è al saggio degli interessi stessi: se la misura non è stata diversamente pattuita tra le parti, gli interessi vengono calcolati secondo una percentuale che è stabilita ogni anno dal Ministero del tesoro con proprio decreto pubblicato nella Gazzetta Ufficiale non oltre il 15 dicembre. Questo saggio viene modificato sulla base del rendimento medio annuo lordo dei titoli di Stato di durata non superiore a dodici mesi e tenuto conto del tasso di inflazione registrato nell’anno.
Il tasso iniziale di tale tipo di interessi fu stabilito proprio nel codice civile, all’articolo 1284: era il 1942 e da allora fino al 1990 gli interessi legali furono determinati nella misura del 5%. Dal 1990 al 1997 arrivarono ad essere addirittura il 10%, segnando il settennio più felice per il recupero crediti. Dal 1997 ad oggi sono andati pressoché costantemente calando, fino ad arrivare al minimo storico del 2016, per il quale il saggio è stato identificato come pari allo 0,20%.
Gli interessi convenzionali
Gli interessi convenzionali sono quelli che le parti espressamente stabiliscono come dovuti a determinate condizioni. Se le parti non ne stabiliscono la percentuale, essi vanno comunque calcolati al saggio di quelli legali. Se, al contrario, le parti intendono pattuire degli interessi convenzionali in misura superiore a quella legale, è indispensabile che lo facciano per iscritto, pena l’impossibilità di far valere la diversa percentuale. Se questa pattuizione non risulta da un atto scritto, gli interessi saranno comunque dovuti, ma in misura pari al saggio legale.
Dunque le parti possono stabilire qualunque percentuale di interessi, purché si siano premurati di scrivere un’apposita clausola che la determina? In realtà no, soprattutto se parliamo di contratti di mutuo, dove a porre un tetto è la normativa in tema di reato di usura: l’articolo 1815 del codice civile stabilisce che, se nel contratto di mutuo sono previsti interessi usurari, la relativa clausola è nulla e non sono dovuti interessi.
Viene da chiedersi come fare a distinguere gli interessi leciti, anche se superiori al tasso stabilito per legge, da quelli illeciti in quanto rientranti nell’ambito dell’usura. A stabilirlo è, periodicamente, un decreto del Ministero del tesoro, con il quale tale tasso limite è individuato sulla base del tasso medio trimestralmente applicato dalle banche o da altri intermediari, aumentato della metà. La rilevazione del tasso medio è affidata alla Banca d’Italia.
Gli interessi moratori
Il Decreto Legislativo n. 231 del 2002 ha introdotto un terzo tipo di interessi: sono gli interessi di mora. Si tratta di interessi, da applicarsi nelle transazioni commerciali (dunque tra imprese o tra imprese e Pubbliche Amministrazioni), pensati per scoraggiare la prassi dei pagamenti ritardati delle fatture.
La stessa normativa quindi stabilisce, da un lato, che le fatture commerciali vadano pagate a 30 giorni da quando vengono ricevute, salvo patto diverso tra gli imprenditori che preveda un termine più lungo; dall’altro, che sulle fatture non pagate entro questo termine maturino automaticamente (quindi senza bisogno di messa in mora) interessi calcolati in misura giornaliera ad un tasso maggiorato rispetto a quello legale. È lasciato alla facoltà delle parti decidere se applicare in automatico questo tasso, o addirittura pattuirne (prima del ritardo) uno di misura ancora maggiore.
Il divieto di anatocismo bancario
Se si parla di interessi è quasi inevitabile toccare il discusso tema dell’anatocismo bancario. Con questo termine si indica, in sintesi, la pratica di calcolare gli interessi sugli interessi, pratica da sempre vietata, a determinate condizioni, dall’articolo 1283 del codice civile. Ciò nonostante, l’anatocismo è stato praticato per molto tempo dalle banche nei confronti dei propri correntisti.
Tramite questa pratica, si realizzava un disallineamento tra il maturare degli interessi a debito e di quelli a credito sui conti correnti, in ragione del quale i primi erano liquidati e conteggiati trimestralmente, mentre i secondi soltanto annualmente. In questo modo, gli interessi a debito ogni tre mesi andavano ad incrementare il capitale dovuto dal correntista alla banca e maturavano a loro volta altri interessi nel successivo trimestre. Alla fine dell’anno, gli interessi che il correntista si trovava a pagare alla banca in virtù, ad esempio, di somme di “scoperto” erano molto più elevati di quelli che avrebbe dovuto pagare su base annuale.
Finalmente, a partire dalla fine degli anni ’90, questa prassi bancaria ha cominciato ad essere messa in discussione dalla giurisprudenza, sino a giungere all’attuale condizione di divieto per illegittimità. Si tratta comunque di una materia in continua evoluzione, come dimostrato anche dalla recente sentenza 9127/2015 della Corte di Cassazione, che ha sancito perfino l’illegittimità di interessi debitori calcolati su base annuale, perché ricondotti dalla banca ad un presunto “uso normativo” che non risulta essersi mai formato e che non può essere dedotto dal solo fatto che la capitalizzazione trimestrale sia stata giudicata illegittima.
La rivalutazione monetaria
La rivalutazione monetaria è strumento diverso dagli interessi, con i quali però spesso concorre a determinare la somma dovuta, ad esempio all’esito di una causa giudiziaria. A differenza però degli interessi, che hanno la funzione di ripagare del ritardo, la rivalutazione non è dovuta automaticamente ogni volta che un debito non è saldato tempestivamente.
La rivalutazione monetaria ha infatti la funzione di attualizzare la somma dovuta, rapportandola al potere di acquisto del momento in cui viene liquidata. Proprio in virtù di tale funzione essa è dovuta nelle obbligazioni di valore, non in quelle di valuta. Ma cosa significa concretamente questo?
Sono obbligazioni di valuta quelle che hanno ad oggetto fin dall’inizio l’obbligo di corrispondere una somma di denaro: ad esempio, il pagamento di una fattura per acquisto di un bene. Al ritardo nel pagamento corrisponderà l’addebito degli interessi maturati dalla scadenza del pagamento all’effettivo saldo, eventualmente il risarcimento del maggior danno, se effettivamente provato, ma la somma non andrà rivalutata.
Sono invece obbligazioni di valore quelle in cui il denaro è dovuto non per se stesso, ma in luogo di un’altra prestazione. Ad esempio, obbligazioni di valore sono quelle di risarcimento del danno per lesioni subite. In questo caso, il responsabile ha l’obbligo di ristorare il danneggiato per ciò che gli ha causato. Non potendo cancellare quanto fatto, il responsabile del danno ha l’obbligo di versare una somma di denaro che monetizza la diminuita capacità fisica. Un’eventuale sentenza, che stabilisse questo tipo di risarcimento, conterrebbe dunque anche la rivalutazione della somma dovuta.
La rivalutazione monetaria viene applicata anche in altre occasioni, ad esempio nel caso di assegno di mantenimento, per attualizzare di anno in anno l’importo corrisposto, in modo da mantenere inalterata la funzione di questa obbligazione, che verrebbe meno, laddove non fosse adeguata al mutare del potere d’acquisto.
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